Pensieri sparsi
di Emanuela Macelloni
Nell’era digitalizzata ci aspettiamo di saperne tutti di più. Quel collegamento che viaggia nell’aria e nei cavi da una parte all’altra del mondo, da milioni di voci espresse in altrettante lingue e immagini ci fa sedere comodi sulla certezza di essere informati e ci illude per questo di essere anche consapevoli.
Ripenso a quando abbiamo cominciato a vedere le prime immagini della Cina. Le prime notizie di qualcosa di grave che lì stava accadendo e che nel progredire delle immagini e delle narrazioni prendeva la forma di un incubo. Morti, malati, isolati. Ma la Cina era lontana. Distante fisicamente. Diversa culturalmente. E forse su quel presupposto (o pregiudizio?) ognuno di noi ha poggiato la sua certezza che qui non sarebbe successo nulla.
Qualche sera fa sentivo le considerazioni di Ilaria Capua che paragonava i tempi lontani nei secoli in cui un morbo aveva colpito il mondo. Era il morbillo. La devastazione che aveva prodotto nei mondi che allora davvero erano distanti, perché quelle distanze erano percorse a piedi. Un confronto semplice per spiegare come fosse stato possibile arrivare a ciò che stiamo vivendo oggi con una devastazione globale, veloce e sottovalutata da chiunque. Propagata rapidamente attraverso il nostro vivere interconnesso in cui dalla Cina all’Europa e dall’Europa in America oggi non si arriva più attraverso mesi di cammino e navigazione. Ma con poche manciate di ore, seduti comodamente su un aereo. E questo lo sappiamo tutti. Ma nonostante questo abbiamo pensato e ci siamo illusi tutti che no. Noi eravamo al sicuro. Che quelle erano immagini e racconti di un mondo lontano che non ci avrebbe toccato. Che sugli aerei e sulle scintillanti navi del divertimento turistico salivano solo passeggeri in carne ed ossa: non virus senza lasciapassare.
Poi tutto è cambiato. Poi quella devastazione è arrivata qui. E non è un caso che abbia colpito più duramente il cuore pulsante dell’economia italiana. La regione più produttiva. La più organizzata. La più interconnessa. La Lombardia.
Impreparati. Attoniti. Increduli. Si fatica a capire, a prenderne coscienza, a decidere misure. Aprire. Chiudere. Limitare. Cambiare abitudini di vita. Si alle passeggiate. No divieto assoluto. Ma si può o non si può. No. Si. È un invito. Ah. Pub chiusi. No aperti fino alle 18. No riapriamo con la garanzia delle distanze. No richiudiamo dalle 18. Niente, giù la saracinesca. Per quale motivo è fuori casa? Denuncia. Modulo. Nuovo modulo. Dovete stare a caaaaasaaaa. Urlato. Supplicato. Spiegato come si fa con i deficienti. E in qualche caso un fondo di ragione ce l’hanno pure.
Si arranca, si fatica. Non usate la mascherina, non serve a proteggere voi quella che state usando. Le mascherine servono al personale più esposto, sanitari e bla bla bla. Usate la mascherina. Ma serve o non serve? Si. No. Boh. Non c’è ne sono. Ah.Ok. Scuole chiuse fino all’8 marzo. No fino al 15. Fino al 3 aprile. No anche dopo. Forse fino a settembre. Sei politico? Non esiste. Didattica online. Che culo abito in Lombardia qui già avevano iniziato. Tutti gli altri? Ah stanno formando i docenti. Ok. Ma tutti hanno un PC e una connessione internet? Ma siiiiii. Eh. No. Ma la maturità? Stiamo stabilendo il quadro epidemiologico. Ah ok. Ma siamo ad aprile. Si farà.
Di questo e tanto altro la Lombardia sta facendo esperienza e non è facile per nessuno. Per chi lo vive e per chi lo deve gestire, anche se ammetterlo mi provoca un certo fastidio perché per parte ideologica io ragione a quelli lì non gliela vorrei mai dare. Manco il beneficio del dubbio. Ma non è il tempo della barricata politica. E questa esperienza così vicina al mondo più occidentale che tanto discrimina le culture diverse dovrebbe servire agli altri. E invece no.
Non tornano le cose. Perché adesso non è più la lontana e diversa Cina. Quei pregiudizi non valgono evidentemente più ora che quell’argine si è rotto. Ora che è vicino. Ora che è dentro. Eppure ancora si commettono e si ripetono a catena sbagli, sottovalutazioni. Cade la Spagna, la Francia e la Germania. Stessi errori a catena. Ma perché in Germania si muore di meno? Perché contano i morti da Coronavirus, noi li contiamo con Coronavirus. Ah. Ma la gente anziana con più patologie e morta con coronavirus sarebbe morta comunque? Si beh prima o poi. Ah. Allora è morta per quello, adesso. Numeri e guerra sulle preposizioni. Di, a, da, in, con, su, per, tra, fra. L’analisi grammaticale non è mai stata così tanto importante. Assume l’importanza di una vita. Quella che si spegne e non si sa perché. O forse non lo si vuole dire.
La confusione sulle scelte diventa sovrana. Una nuova forma di sovranismo che delinea i nuovi confini dei pugni di ferro e di carezze di rassicurazione. Coinvolge e travolge. Governi transnazionali. Nazioni intere. Stati. Regioni. Provincie. Comuni. Singoli individui. Ognuno con la propria ricetta. In rigoroso ordine sparso. Abituatevi a piangere i vostri cari. No, due ore fa mi sono sbagliato. Chiudiamo. La Bce non è qui per risolvere il problema dei singoli stati. Ah no. Invece mi sono ricordata che siamo qui per questo. È la nostra missione. Borse su. Borse giù. Spread e ftsimib. Ma perché mi parli dello spread dopo che mi hai dato la notizia che abbiamo esaurito i respiratori? Qual è il nesso. Io non lo voglio sapere.
La devastazione prende il largo sotto forma di curve e di numeri agghiaccianti. Ma ancora non basta. Strette, continue, incessanti che si moltiplicano a suon di comunicati e decreti e che vengono diramati la notte, quando tutto è fermo e spento sul serio. Mi alzo, controllo e ancora c’è una novità. Delle 22.42. Cazzo, proprio stasera che ho spento la TV. Fontana. Lombardia tutto chiuso fino al 15 aprile. Conte. Italia tutto chiuso fino al 3. Oddio. E quindi cosa vale? Vorrei aprire la finestra e organizzare un flashmob. Dai urliamo tutti insieme alle 18. Fermatevi. Decidete. Dateci istruzioni chiare che riusciamo a capire. Tutto fermo da oggi. Ma se vuoi puoi andare a comprarti un porcellino d’india, il negozio è aperto. Ma vale come motivo urgente? No. Ah. Ok. Fermatevi.
L’unica cosa che non si ferma è il suono, continuo e incessante delle ambulanze. Sirene che rompono il silenzio e che parlano di singoli drammi vissuti nelle case. Lampi che illuminano le vie, ora sì vicini a casa. Vicini alle roccaforti dentro cui ognuno di noi cerca di vivere una normalità stravolta.
Le piattaforme social diventano le finestre sul mondo, ultima occasione di scambio con le persone con cui prima si condivideva la vita fuori.
Fotocamere che entrano nel tuo privato e che tentano di dare nuova forma agli impegni che prima vivevi fuori. Riunioni, cene, aperitivi, corsi di ogni tipo. Piattaforme che ti consentono di incontrare le persone più care su spazi virtuali. Mamma, papà, voglio abbracciarvi. Mi mancate.
Nelle case c’è chi si adopera nei modi più disparati. Chi pulisce ogni singolo angolo inesplorato della propria esistenza, chi sistema sgabuzzini infernali in cui fino a ieri ammucchiava l’inutilità della vita rimandando a domani ogni sospirato “poi lo sistemo”. Si torna a fare i compiti con i figli, grandi o piccoli che siano. Si cucina come se non ci fosse un domani. Si riscopre la farina e i piatti pronti restano un lontano ricordo di quando il tempo per preparare non c’era, insieme alla voglia e all’energia. Si tirano fuori vecchi e improbabili giochi da tavolo, che i figli più giovani non avevano mai visto. Ma cos’è sto coso? Ma coooomeee? Non hai mai visto master mind? No io ho visto solo master chef. Ah. Si sta insieme e questa è la parte più bella di chi ha la fortuna di avere intorno a sé una famiglia. Forse per molti e fino a poche settimane fa la vita era fuori. Ora tanti la stanno riscoprendo dentro, o addirittura la conoscono per la prima volta. Ora le case sono affollate di questa vita, mentre la strada che prima se la prendeva tutta diventa il nuovo deserto.
Nuovi soggetti la occupano. Militari, forze di polizia, protezione civile, polizia municipale. Un po’ fa paura, nonostante quei soggetti siano coloro che operano a garanzia. Ma è chiaro anche all’immaginario collettivo che quando le divise occupano lo spazio pubblico qualcosa si è inceppato. Qualcosa di grave. I megafoni che invitano a restare a casa. Torce che di notte illuminano giardini privati. Protezione Civile, stiamo controllando. Ok, ma mi hai spaventato a morte. A Bergamo non c’è spazio per i morti, che ora vengono portati via con camion militari. A Codogno la protezione civile distribuisce beni alimentari casa per casa, chiedendo a chi ne ha bisogno di sostare sul marciapiede davanti ai portoni. Sembra un film distopico. Invece è la realtà. Una realtà a cui si fa fatica a credere.
Poggiavamo sicuri su tante certezze che sono state trascinate via. Tra queste, una lenta ripresa della nostra economia e dell’occupazione. Migliaia di posti di lavoro sono stati spazzati via in poche ore. Mi chiedo ora come possano e come potranno sopravvivere tutti coloro che avevano un lavoro strutturato diversamente da quello dei normali dipendenti, che pure, nonostante qualche garanzia in più, rischiano il boomerang in faccia per le chiusure delle attività in cui lavoravano fino a ieri. Dalle colf ai liberi professionisti. Dai muratori ai commercianti. Da chi aveva una qualche forma contrattuale di impiego a chi no, fino a chi il proprio impiego lo costruiva in proprio.
Mi chiedo come potranno vivere ora e far fronte alle normali spese. Come potranno onorare gli impegni presi. Al termine di questo Tsunami che ci ha travolti tutti resteranno le macerie di vite costruite su certezze che ora abbiamo imparato essere effimere. Ne prenderemo coscienza? Saremo in grado di costruire un mondo diverso e una nuova resistenza? Ne conserveremo memoria? Tutto questo servirà a qualcosa? La speranza accanto alla paura.
Andrà tutto bene. Davvero?