Stare nel continente virtuale. Dal Diario di Giulia
di Giulia Spada
La mia prima emergenza sanitaria
Un diario dell’esperienza sul mio stare nel continente virtuale.
Una premessa.
Lavoro come insegnante di italiano per studenti che vengono da diverse parti del mondo: si tratta di persone che arrivano in Italia per lavorare in multinazionali e che dunque hanno necessità di imparare la lingua per esigenze lavorative e di vita quotidiana. Oltre agli adulti, insegno anche a bambini ed adolescenti che frequentano scuole internazionali. La scelta didattica che anima queste scuole è l’insegnamento dell’inglese come madre lingua e poi tutte le altre come lingue seconde. I miei studenti in età scolare non sono solo internazionali ma spesso ho a che fare con italiani che vivono una vera e propria condizione di sradicamento linguistico perché si trovano a dover imparare la lingua italiana che nei mondi che attraverso io (dell’alta borghesia prevalentemente milanese che vive nel mito dell’internazionalizzazione) è una lingua addirittura riprovata, mentre l’inglese è l’unica lingua permessa e socialmente valorizzata sopratutto come prospettiva di crescita relazionale e professionale. La modalità di lavoro che adotto è uno ad uno (sia con gli adulti che con i ragazzi), presso il domicilio o l’ufficio dei clienti. Frequentemente ho degli incontri con l’istituzione scolastica per concordare i programmi, per fare il punto sulla situazione scolastica degli studenti e, ancora più spesso, ho incontri con l’istituzione psichiatrica nelle figure professionali di logopedisti, esperti di psicomotricità e neuropsichiatri perché la maggior parte dei miei studenti ha diagnosi di disturbi dell’apprendimento e in particolare di BES (bisogni educativi speciali). Il mio lavoro con gli studenti è fortemente relazionale, il novanta percento del lavoro con loro è svolto in presenza, tranne i casi in cui c’è una vacanza oppure per qualche ragione sono io ad essere impossibilita a recarmi a casa dello studente (in questo caso facciamo una passeggiata nel continente virtuale).
L’accasamento nel continente virtuale.
Quando è stato varato il provvedimento di chiusura delle scuole, circa un mese fa, ho pensato che niente sarebbe cambiato per me. La prima settimana a casa era, per gli studenti, più o meno come una vacanza, e per me, opportunità gradita di diluire le ore di lavoro tra mattina e pomeriggio. Già nella seconda settimana di stop da scuola, le cose sono iniziate a cambiare perché sono state attivate le classi online con didattica a distanza; continuavo a muovermi a casa delle persone con orario pomeridiano. Tuttavia con il provvedimento varato lunedì scorso che imponeva pesanti restrizioni agli spostamenti, le cose sono definitivamente cambiate anche per me: ho dovuto accasarmi forzatamente nel continente virtuale. Ho passato un intero pomeriggio a riflettere sulla mia situazione: se le scuole sono chiuse, come posso motivare ad un eventuale posto di blocco che invece la mia è una pedagogia che necessita di presenza? Mi arrendo, prendo le mie cose e mi trasferisco online.
Utilizzo Whatsapp video, FaceTime (un applicativo per video chiamate già presente nei dispositivi Apple) e Skype. Le lezioni hanno la durata normale, dunque tra un’ora e le due ore. Passo il pomeriggio intero attaccata al computer o al telefono senza grandi soluzioni di continuità (fisso le lezioni una dietro l’altra pensando che sia un’idea geniale, invece….). Quando finisco di lavorare, rimango alla postazione computer per almeno un’altra ora:
tramite Gmail e DropBox devo mandare documenti ai miei studenti (con alcuni stiamo preparando l’esame di terza media, dunque c’è un flusso dati importante), comunicare con le famiglie e con le scuole. Nel frattempo, ricevo un messaggio dal mio operatore telefonico che mi invita, ad un prezzo vantaggioso, ad ampliare la banda del mio traffico dati. Sento storie da parte di colleghi insegnanti di ruolo, che hanno ricevuto offerte analoghe: Gmail
propone di ampliare il loro spazio di archiviazione ad un prezzo altrettanto vantaggioso.
Le implicazioni del corpo reale.
Tutto ciò che ho apparecchiato è comunque insufficiente per il lavoro che svolgo con studenti che hanno diagnosi di bisogni educativi speciali. Alcune persone non riescono a costringersi davanti ad uno schermo per diverso tempo di seguito. Per loro è materialmente impossibile applicare una didattica a distanza. Penso con gioia che sono loro il mio passepartout per uscire di nuovo nel mondo reale. L’unica cosa che devo fare è….compilare il permesso. L’accasamento nel continente virtuale mi pone davanti al primo pegno da pagare: il disciplinarmente del mio corpo reale e l’autorizzazione affinché io possa spostarlo nel territorio. Nel mondo virtuale il mio corpo dissociato può girare come e quanto desidera, non ci sono posti di blocco (se devo accedere a siti protetti, lo faccio in tutta serenità tramite password e nome utente scelti da me in ammiccante accordo con l’algoritmo), non ci sono restrizioni o limitazioni. Mi sembra che sia tutto giocato sui miti della disponibilità (in questo momento di emergenza ti mettiamo a disposizione tutti gli strumenti per continuare a lavorare) e della flessibilità (hai la fortuna di poter lavorare da casa come e quanto vuoi) che, a mio parere, obbligano però i corpi reali ad un’auto regolazione ad un’ubbidienza per un non meglio precisato bene superiore (se tutti noi faremo la nostra parte, ne usciremo presto e meglio).
Compilo il permesso messo a disposizione dal Ministero degli Interni: indico che mi sto spostando per motivi di lavoro indifferibili. Allego un’altra auto certificazione, aiutata dalla commercialista che mi segue per le pratiche relative alla partita Iva, in cui dichiaro di esercitare la professione di insegnante a domicilio per studenti con diagnosi DSA/BES e di non poterlo fare a distanza, a causa della certificazione di disturbi dell’attenzione e
apprendimento dei suddetti studenti. Compilo un’altra dichiarazione scaricata dal sito degli interni per dichiarare lo spostamento inverso, cioè da casa dello studente a casa mia e mi sento tranquilla. Passano alcune ore. Si attiva il mio carceriere interiore che si auto disciplina prima che qualcuno mi disciplini. Mi convince a telefonare alla famiglia dello studente in questione e di avere copia della sua diagnosi. Mi sento più tranquilla, credo di aver fatto un buon lavoro. E’ tardi, vado a dormire, l’indomani ci sarà la prova del nove: se mi fermano, posso esibire il permesso che ho redatto da sola. La mattina successiva, mentre sono già in viaggio in treno, mi assale un dubbio feroce: non sono certa che sto facendo una cosa legale andando in giro e, all’occorrenza, esibendo la diagnosi di un bambino: è un documento riservato, rilasciato semmai alla scuola e alla famiglia. Incrocio le dita e spero di non venire fermata. Arrivo a destinazione sana e salva. Il mio carceriere si attiva prontamente per richiedere alla famiglia del bambino, prima ancora dei saluti, di avere una liberatoria firmata in cui mi autorizzano a giare con i dati sensibili del loro bambino. Sono salva!
Ciò che mi manca.
Ho iniziato a fare l’elenco delle cose che mi mancano del mio spostarmi nel mondo reale e
relazionale con gli studenti:
- Pioggia, il cane di C. che mi salta addosso appena la domestica apre la porta;
- M. che mi fa vedere e toccare i sassolini trafugati dalla montagna dove va a sciare convinta che si trasformeranno in diamanti quando sarà vecchia;
- E. che mi chiede di stare attenta a dove cammino perché ha sparso in terra gli appunti delle lezioni e deve ordinarli;
- L. che mi fa colorare con lui mondi disegnati;
- K. che mi offre di nascosto un Ferrero Rocher;
- S. che mi chiede di chiudere gli occhi perché ha cucinato una cosa per me e devo indovinare dal profumo;
- G. che alza la tazza con il centrifugato preparato dalla mamma perché prima di iniziare dobbiamo fare un brindisi di buon lavoro;
- S. e G. che mi chiedono di controllare le unghie del gatto prima di iniziare la lezione perché sono l’unica che le sa tagliare;
- E., la domestica che lavora e che vive per la famiglia di S.e G., che nel cambio tra una ragazza e l’altra mi parla in russo così mi insegna qualche parola.
Ciò che manca agli studenti.
Pensavo che i miei studenti che sono abituati a stare online molto tempo al giorno (nelle scuole che frequentano usano pochissimi libri e il più si fa online con computer o tablet) avessero case comode e sontuose nel continente virtuale. Ho scoperto che non sempre è così. Ho preso l’abitudine, durante questa settimana di blocco forzato, di aprire le lezioni con uno scambio narrativo: cosa mi manca di te e cosa ti manca di me, l’abbiamo intitolato.
È un momento in cui cerchiamo di tornare alla relazione, di ricordarci del corpo seduto dall’altra parte dello schermo. Ho scoperto con sorpresa che anche per loro, lo stare online non è molto positivo. Chiudo il diario con ciò per cui gli studenti mi hanno finora confidato di provare mancanza:
- il contatto con gli amici;
- andare fisicamente a scuola per avere l’opportunità di vedere qualcosa di diverso oltre la casa;
- stare con gente diversa dai propri familiari o personale di servizio;
- avere qualcosa di diverso da raccontare quando si torna a casa;
- comprare la merenda alle macchinette;
- scambiare le figurine con quelli delle altre classi;
- vedere i ragazzi delle classi più grandi;
- prendersi per mano con il proprio amico o amica del cuore quando si sta in fila per cambiare classe;
- le lezioni di ginnastica e quelle di laboratorio scientifico.